La storia della viticoltura nella Penisola italiana può vantare una origine antica ma fu soltanto durante il periodo romano che il vigneto si diffuse capillarmente, riuscendo a superare indenne anche le difficoltà dello stato romano. Nel III secolo d. C., ad esempio, nonostante il territorio italico attraversasse una forte crisi economica e sociale, la vigna continuava a vantare un’ampia propagazione.
La situazione mutò con lo scoppio della guerra greco- gotica che devastò le campagne di gran parte della Penisola, con risvolti a volte drammatici per le popolazioni dei territori coinvolti. Di riflesso, anche la presenza dei vigneti nelle campagne italiane registrò un brusco arretramento.
La situazione non cambiò dopo l’invasione dei Longobardi che, a partire dal 568-569, conquistarono buona parte dello Stivale. Sebbene l’Editto di Rotari, risalente al 643, poneva molta attenzione nei confronti della viticoltura e delle colture arboree, con il tentativo di tutelare queste pratiche agricole, la realtà era ben diversa: molte terre erano state abbandonate dal lavoro dei contadini, con la conseguenza che si assistette ad un prepotente avanzamento dell’incolto a scapito delle terre messe a coltura.
I terreni, lasciati al loro destino, furono progressivamente conquistati dai boschi, dalle sterpaglie e dall’incolto. In tale contesto, anche la vite subì un drastico ridimensionamento, senza però mai sparire del tutto: pur essendo sempre meno presente nelle campagne italiane riuscì comunque a resistere, soprattutto grazie ai nuovi valori che il vino andava ricoprendo nell’ambito della religione cristiana.
Nel Cristianesimo, il vino è infatti veicolo di messaggi evangelici, possiede una forte connotazione sacrale e simbolica, ricopre anche una funzione liturgica fondamentale: durante la celebrazione dell’eucarestia, il vino era consumato anche dai fedeli e non soltanto dai prelati.
Da ciò scaturiva la necessità di garantire una certa produzione della bevanda alcolica. Il Cristianesimo ebbe, quindi, un ruolo determinante nella diffusione della vite, garantendone una proliferazione anche in territori dove le condizioni climatiche non favorivano la crescita dei vitigni: pensiamo ad esempio all’introduzione delle vigne nelle regioni del Nord Europa, perciò all’introduzione di una pianta mediterranea in un contesto ambientale ben differente, come quello atlantico.
A partire dalla fine del VII secolo, anche se molto stentatamente, iniziò a registrarsi una nuova fase di espansione della viticoltura, che avverrà in modo molto più deciso e diffuso tra il VIII e il IX secolo. In un primo tempo, la diffusione delle vigne avvenne su iniziativa dei più grandi e prestigiosi monasteri (per motivi legati al culto, all’alimentazione e agli scambi commerciali). Successivamente, alla luce anche di una indubbia reddittività garantita dalla pianta, anche i feudatari si fecero promotori della coltivazione della vite, rendendosi protagonisti, soprattutto a partire dal IX secolo, dell’espansione dei vigneti.
Nei secoli successivi all’anno Mille, invece, furono altri i protagonisti della diffusione della vite: i nuovi ceti urbani. La ripresa delle attività di scambio e dei commerci, via via su scala sempre più ampia, provocò un aumento della popolazione urbana, che permise la formazione di uno strato sociale cittadino nuovo e dinamico, desideroso d’investire i propri capitali nella terra (naturalmente in questa nuova fase gli enti ecclesiastici e l’aristocrazia continuarono ad investire nelle campagne, contribuendo all’espansione della viticoltura, ma non ne furono gli unici protagonisti, come registrabile nei secoli altomedievali).
Per questi nuovi ceti, inoltre, disporre di tanto vino costituiva il segno tangibile della propria ascesa sociale giacché, fino ad allora, la bevanda era esclusivo appannaggio degli ecclesiastici e della nobiltà. Così, tra l’XI e il XV secolo, gran parte delle campagne intorno alle città d’Italia divennero delle vere e proprie terre viticole registrando, a volte, delle appendici anche entro le mura cittadine. I vigneti, comunque, non si diffusero soltanto intorno alle città, ma proliferarono anche attorno ai castelli, ai villaggi e addirittura anche in aperta campagna, lontano da ogni insediamento.
Il vino, molto richiesto nei mercati urbani, era un prodotto il cui commercio andava molto bene, soprattutto nei centri cittadini, non soltanto perché nelle città c’era una maggiore concentrazione di individui ma anche perché i consumi erano molto elevati. Ad esempio, il cronista fiorentino Giovanni Villani ci testimonia che nella Firenze della prima metà del XIV secolo il consumo di vino annuo pro capite si aggirava intorno ai 260- 270 litri.
Nel tardo medioevo (XIV-XV secolo), invece, a Siena, a Bologna e nell’area veneta i consumi superavano addirittura il litro al giorno pro capite. Le ragioni di questi consumi così alti erano molteplici. In primo luogo, il vino aveva un apporto calorico non trascurabile e quindi veniva consumato per motivi alimentari.
Non bisogna nemmeno dimenticare, inoltre, che costituì a lungo l’unica bevanda per la socializzazione e per lo svago. Inoltre, si riteneva che l’alcool possedesse proprietà curative tali da venir usato come rimedio per molti mali. Infine, oltre al consumo di vino legato alla religione, era costume consumare l’acqua con l’alcool, sfruttando, in questa maniera, le proprietà asettiche tipiche del vino.